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Storie di alta cucina

Fine dining: definizione abitualmente usata per i locali stellati della Guida Michelin e, ancor più, per quelli della Fifty Best, classifica che ha l’ambizione di segnalare i 50 migliori ristoranti del mondo. Tuttavia, il significato storico di fine dining non puntava tanto a definire un’eccelsa e magari avanguardistica proposta gastronomica, bensì una ristorazione sofisticata anche dal punto di vista del servizio e dell’ambientazione – clienti inclusi – dato che con la loro presenza contribuiscono a dare un tono all’atmosfera del locale. Clienti che un tempo si supponeva fossero ben educati, “di classe”, vestiti con eleganza o comunque dignitosamente, e che sapessero come impugnare le posate e come tenere i gomiti; mentre oggi, vada come vada, basta che i clienti abbiano capacità di spesa.

Un tempo, nei paesi anglosassoni – dove a tutti i livelli sociali si usava apparecchiare direttamente sul legno del tavolo o tuttalpiù su rettangoli di materiali vari (le tovagliette americane) – i locali più raffinati, quelli appunto di fine dining, venivano anche definiti white-tablecloth restaurants. Insomma, quello che fuori dall’Italia era un’eccezione, cioè mangiare su una bella tovaglia bianca (e sotto un mollettone), qui da noi era la norma, persino a casa, in famiglia. Sulle tavole c’era sempre una tovaglia, fosse anche quella a quadretti delle osterie: una tradizione che risaliva addirittura ai tempi dell’imperatore Domiziano. Oggi, anche nei ristoranti stellati italiani, si impone al cliente di mangiare direttamente sul tavolo, con le ditate che risaltano, la superficie gelida o appiccicosa che dà fastidio a contatto con la pelle nuda dell’avambraccio. L’igiene, per giunta, è sicuramente inferiore a quello di una bella tovaglia fresca di lavaggio e stiro. Questa bistrattata tradizione rimane nella sua massima espressione all’Harry’s Bar di Venezia, dove i camerieri sono maestri nella sostituzione della tovaglia di lino, durante il pasto, prima di passare al dolce.

Dunque, fine dining vorrebbe dire che non solo si mangia bene, che non solo si è in un locale elegante, ma anche che l’atmosfera è “scaldata” da un certo numero di eleganti e rappresentativi habitués, che il maître li riconosce e cerca di dar loro il tavolo migliore, e sa cosa amano bere o mangiare, e che forse i clienti riescono persino a fare conoscenze utili, a orecchiare pettegolezzi strepitosi. Tutto quello che trovate nel celebre racconto di Truman Capote, La Côte Basque, ambientato nell’omonimo ristorante di Manhattan, dove solo ai parvenus si rifilavano prenotazioni in Siberia, vale a dire quei tavoli sfortunati posti dietro una colonna, oppure vicino alla porta della toilette. Ora invece si definiscono di fine dining ristoranti privi di atmosfera, anodini, noiosi, magari con il menu degustazione obbligatorio per tutto il tavolo, con formalismi micidiali e regole che non sono al servizio del cliente, bensì del narcisismo dello chef. Molti clienti danarosi si sono però stancati di questa enfasi posticcia, spesso incoraggiata da critici gastronomici sempre entusiasti e tonitruanti, che ovviamente non pagano il conto ma sono graditi ospiti degli chef.

Si è così giunti a nuova stagione, con il passaggio dallo “cheffismo” dei primi vent’anni del Duemila a una fase in cui torna di moda la ristorazione borghese o alto borghese, senza chef di grido e però molto migliorata, proprio per aver osservato i punti forti degli stellati. In questi ristoranti più tradizionali c’è una nuova qualità del servizio e di presentazione dei piatti, c’è più cura nella preparazione e nella scelta delle materie prime, senza però i frustranti rituali dei locali creativi e d’avanguardia. Questi ultimi, per giunta, praticano spesso una cucina priva di identità territoriale, con stilemi che si rincorrono e si replicano su scala internazionale. C’è insomma il ritorno alla creazione di un’atmosfera in cui il cliente non si senta ingabbiato, dove sia protagonista e non fan plaudente dello chef.

Guardiamo i numeri: in Italia, nel 2022 i ristoranti stellati hanno fatturato 327 milioni di euro, il 26 per cento in più rispetto al periodo pre-pandemia. Questi 327 milioni, divisi tra i 378 stellati della Michelin, danno meno di un milione di fatturato annuo a testa. E se, poniamo caso, da questa non esaltante media volessimo togliere quei fuoriclasse dei fratelli Cerea (il ristorante Da Vittorio), maghi del catering, del far star bene i clienti, e dunque dei fatturati, le medie del comparto si abbasserebbero ulteriormente. La non stellata Langosteria, col suo meritatissimo successo, in una qualsiasi delle sedi, surclassa il fatturato di gran parte dei più prestigiosi stellati. Cito altri due locali molto amati dalla borghesia e dall’altra borghesia, con servizio eccellente, grande professionalità, atmosfera, eppure senza stelle: Romolo al Porto di Anzio, uno dei migliori ristoranti di pesce italiani oltreché campione di qualità e velocità del servizio, e L’Europeo di Napoli, cucina tradizionale e atmosfera caldissima, gioia di andarci e vedere chi c’è o non c’è, e la sera Daniele e Antonio, mandolino e chitarra, talmente bravi che persino Bernard Arnault ha voluto ingaggiarli per sontuosi festeggiamenti parigini. Di fatto, i clienti che spendono, siano del luogo o invece turisti, perlopiù non cercano la cosiddetta “cucina con le pinzette”, spesso cervellotica e priva di impatto, quanto una certa autenticità, nel senso di impronta locale, che dia l’impressione di essere in un luogo che crea affezione, dove anche la gente benestante del posto torna volentieri. Spesso, il pubblico degli stellati è fatto di curiosi. Esce la nuova Michelin e si crea un ingorgo per prenotare nei locali premiati, ci si precipita a provare le new entry per poter dire “ci sono stato”. Una sorta di agonismo da fan: si va per fare status, per aggiungere una figurina al proprio album. Ma per potersi vantare basta una volta. Come alla prima della Scala, dove si va per dire d’esserci stati, senza necessariamente essere amanti dell’opera e senza poi farsi vedere per tutto il resto dell’anno.

Categoria: Fine dining
Titolo: Storie di alta cucina
Autore: Camilla Baresani