L’Alchemist di Munk
Ristorazione olistica: viene definita così l’esperienza di fine dining offerta dallo chef Rasmus Munk all’Alchemist di Copenhagen.
Se non avete visto il film The Menu, ve lo riassumiamo in poche righe. Siamo da qualche parte in un paese nordico. Un gruppo di gourmet danarosi, o che hanno risparmiato duramente per poter “accedere all’esperienza”, approda su un isolotto. Sono degli eletti entrati in un’esclusiva lista d’attesa per partecipare a una cena che si annuncia sublime e sorprendente. Un celeberrimo chef narciso farà la sua spettacolare esibizione gastronomica. Tra vanità, di tutti, anche dei clienti, stupidità, ferocia e pazzia criminale, tutto finirà malissimo.
A parte la deriva horror del film, la messinscena ricorda cosa succede dal celebre Alchemist di Copenaghen, ristorante di cucina olistica (poi vi spieghiamo) con due stelle Michelin guadagnate subito dopo l’apertura, nel 2019. Lo chef e proprietario Rasmus Munk sostiene che il cibo è pari all’arte, aspira al premio Nobel per la pace (lo ha dichiarato recentemente al New Yorker ) e ha una lista d’attesa per cui «potremmo resistere per altri venti o trent’anni» (pare che si tratti di decine di migliaia di persone, alcune delle quali si stancano, per fortuna, e lasciano il posto ad altri più pazienti), ma il suo desiderio è mollare tutto entro poco tempo, e poi chissà. Se entrate nel sito del ristorante, dopo aver letto le sette pagine del manifesto della cucina olistica (non temete, ve lo riassumeremo), avrete presto un’idea dell’immane difficoltà della prenotazione. In pratica si tratta di accedere a biglietti che vengono rilasciati (per sapere quando bisogna iscriversi alla newsletter) ogni tre mesi. Acquisiti i biglietti, ci si iscrive alla lista d’attesa. Il ristorante è aperto quattro giorni a settimana, mai nel week end. Non si può essere dispari, ma in due o quattro o sei. Il biglietto vale come pre-pagamento del menù. La spesa media per un pasto è di circa mille euro (con l’abbinamento dei vini). Poi, se prenotate il “tavolo del sommelier”, potete spendere più del doppio. Il menù è composto da circa cinquanta «impressioni» (così vengono chiamati i piatti), e il «viaggio parallelo attraverso gli spazi fisici unici di Alchemist, così come attraverso i tuoi sensi» dura dalle quattro alle sei ore : «Gli unici prerequisiti sono curiosità e prontezza di spirito». Non basta. Leggiamo sempre sul sito: «Ti preghiamo di arrivare con la mente aperta ed essere pronto ad ampliare la tua idea di arte culinaria insieme a noi. Tieni presente che Alchemist potrebbe non essere la scelta giusta per una serata di discussioni di lavoro o per l’insicurezza emotiva di un primo appuntamento». Va detto che, leggendo le interviste di Rasmus Munk, si apprende che è stato un bambino povero e bullizzato. Forse oggi si prende le sue rivincite e bullizza i clienti con i suoi cibi raffinatissimi, fatti di materie prime sublimi, ma serviti in un modo che ha del dittatoriale. Vi spieghiamo perché: la grande sala ristorante senza finestre è attraversata da un lungo tavolo di marmo che serpeggia sotto una cupola coperta sulla cui superficie vengono proiettate immagini immersive. Sound & vision & tasting , insomma. I temi dell’esperienza gastronomica (e qui arriviamo all’olistico) «puntano a trasformare e trascendere la natura del cibo e della ristorazione». In pratica, dietro ogni piatto col suo accostamento visivo e sonoro, c’è il cosiddetto “spiegone”, ossia lo scopo di sensibilizzare alla donazione di organi, come con il dolce che sembra un cuore umano (e invece è fatto di una miscela vischiosa di ibisco, sangue di cervo e muscovado ricoperti da una mousse di ciliegie modellate a forma di cuore). Oppure, di richiamare ai disastri ecologici dovuti agli allevamenti intensivi, con l’apporto proteico che potrebbe essere sostituito dagli insetti: eccovi allora delle pastiglie di finta ambra, fatte di zenzero e miele della Tasmania, al cui centro, in trasparenza, trovate formiche rosse cristallizzate. Nel frattempo, il cameriere che vi serve il piatto, vi farà sommessamente sapere che più di ottocento milioni di abitanti della Terra vanno a dormire a stomaco vuoto, e non perché stiano seguendo la dieta del digiuno intermittente.
Munk’s Plastic Fantastic è un piatto che simula pezzi di plastica (mentre sulla cupola sovrastante scorrono immagini di oceani pieni di isole di plastica e pesci strozzati da reti abbandonate). I rifiuti che vi trovate nel piatto, in realtà commestibili, sono creazioni di collagene e alghe posate su un filetto di platessa fritta.
«Deve esserci anche una parte di disgusto nell’arte e qualcosa che ti sfidi», sostiene Munk. E così vengono servite finte casse toraciche, fette di medusa cruda, repliche della lingua umana («da baciare, non addentare» suggeriscono i camerieri), finti globi oculari innervati, finti crani mozzati al cui interno trovare simulazioni di materia cerebrale, e poi farfalle liofilizzate, finti artigli di gallina che reggono polpette di pollo, eccetera eccetera. I temi del menù sono lo spreco alimentare, il cambiamento climatico, le condizioni degli allevamenti e, insomma, c’è sempre un sermone in agguato.
Ed eccoci alla sintesi di cos’è la “ ristorazione olistica ”, secondo il manifesto pensato da Munk. «È per definizione multistrato. Attinge a elementi del mondo della gastronomia, del teatro e dell’arte, così come alla scienza, alla tecnologia e al design per creare un’esperienza sensoriale onnicomprensiva e guidata drammaturgicamente». Mira, insomma, a esplorare spinose questioni sociali con un misto di cibo, arti visive e performative, e spiegoni del cameriere.
L’alchimia – una scienza esoterica che si proponeva, tra le altre cose, di trasformare il piombo in oro – qui dovrebbe trasformare lo spirito dei clienti del ristorante attraverso l’esperienza del cibo. Portarli a mettere in discussione le proprie certezze alimentari e a riflettere sui problemi globali e sulle responsabilità individuali. Munk non serve solo cibo, serve pensieri. Perché l’obiettivo si realizzi, si entra in una pièce teatrale di cui non si è banali spettatori, ma anche attori inconsapevoli, parte pagante e integrante di una rappresentazione più grande, orchestrata da Rasmus Munk, lo chef un po’ panurgo e un po’ santone che ama provocare i suoi fedeli in un rituale che simula quelli allucinatori dell’ayahuasca.
È un approccio che riporta alla mente certe atmosfere dei racconti distopici di Orwell o di Huxley, dove il mondo che conosciamo si sgretola e ne emerge uno nuovo, al contempo affascinante e terribile. L’Alchemist di Munk si muove proprio su questa linea di confine: il confine tra piacere e disagio, tra bellezza e orrore, tra il familiare e l’alieno.
Categoria: Fine dining
Titolo: L’Alchemist di Munk
Autore: Camilla Baresani